Un’auto del 1972, resa famosa negli anni settanta dalla serie poliziesca televisiva “Starsky e Hutch”, una Ford modello Gran Torino, è la muta protagonista che dà anche il titolo al film, diretto e interpretato da Clint Eastwood. Un vecchio operaio della casa automobilistica di Detroit rimane da solo, dopo la morte della moglie, nel suo villino di una periferia abitata quasi totalmente da profughi Hmong (una popolazione asiatica sparsa tra Laos, Cambogia, Vietnam e Thailandia), rifugiati negli Stati Uniti dopo la fine della guerra in Vietnam, per evitare ritorsioni e massacri. Walt Kowalski, di origine polacca, è un uomo incapace di comunicare con i figli e i nipoti, non solo per sua colpa, e prova un profondo disprezzo per i suoi vicini vietnamiti. Tutta una serie di eventi provoca in Walt un lungo viaggio interiore, diventa amico dei suoi strani vicini, e capisce di avere più cose in comune con loro che con la sua famiglia, coi figli che lo vorrebbero rinchiudere in un “albergo” per anziani, e tutto ciò che gli accade lo porta al sorprendente finale, che giustamente non va rivelato. “Del film mi piaceva l’idea che non è mai troppo tardi per imparare, crescere, capire, e ricevere una sorta di illuminazione”, ha detto in una intervista Clint, californiano di San Francisco, reso famoso dall’interpretazione dell’Uomo senza nome nella mitica trilogia del dollaro del grande regista romano Sergio Leone, che di lui diceva: “Mi piace perché ha solo due espressioni: una con il cappello e una senza il cappello, con il ghigno costantemente ornato da mezzo sigaro!”. A ottanta anni la sua faccia, segnata dal tempo, trasuda testosterone ed è più espressiva che mai. Quanta strada in oltre quaranta anni, il californiano è un grande davanti e dietro la macchina da presa, in “Gran Torino” ha superato se stesso, regalando ancora una volta al pubblico un film assolutamente da vedere che lascerà un segno importante nella storia del cinema. Grande Clint!
Fabrizio Scarpa – 20 maggio 2006
“il Mercoledì” – numero 20 anno XV