Sono passati venticinque anni da quel 9 novembre 1989, giorno in cui il governo della Germania Orientale decretò l’apertura delle frontiere con la Repubblica Federale Tedesca. Un muro, lungo 155 chilometri e alto circa 3 metri, la cui costruzione era iniziata nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961, circondò completamente Berlino Ovest, trasformando i settori occidentali in un’isola rinchiusa nei territori orientali. Ufficialmente il muro fu presentato come una protezione per evitare eventuali aggressioni dall’ovest, ma fu subito evidente che sarebbe servito per impedire che i cittadini dell’est potessero andare a occidente. Il muro fu perfezionato e rinforzato nel tempo, trasformato presto in un sistema insormontabile di bunker, torri di guardia, ostacoli, trappole, congegni elaborati e automatici che sparavano addosso ai fuggitivi senza l’intervento delle guardie di confine. Tanto lavoro, acciaio, denaro, tecnologia dimostrarono presto che, solo con il filo spinato, con barriere insuperabili, con guardie armate e cani addestrati a uccidere, si potevano costringere degli esseri umani a vivere in una società che veniva chiamata comunista ma che in realtà non era molto differente dal nazismo appena debellato. Da quanto ho studiato, ma soprattutto da quanto credo di avere capito, quell’ideologia, espressa verso la metà del diciannovesimo secolo da Marx e Engels nel Manifesto del Partito Comunista, ha finito per rivelarsi non applicabile o comunque, nella gran parte dei casi, male applicata. Il muro per 28 anni è stato il simbolo fisico della Cortina di Ferro che separava non solo la Germania ma l’Europa intera durante la Guerra Fredda tra Occidente e Oriente. A novembre del 1990 l’intero muro era stato definitivamente abbattuto, ad eccezione di sei punti che restano a imperituro ricordo; i blocchi di cemento, sgretolati, furono poi utilizzati per la costruzione di strade, mentre una parte fu trasformata in “souvenir” e messa all’asta. Sgretolare, questo verbo mi fa venire il dubbio che insieme al muro si sia sgretolato anche un equilibrio mondiale, seppure precario, nel quale il “proletariato imperialista” sovietico e l’imperialismo capitalista americano si facevano reciprocamente da contrappeso e da freno. Un equilibro che dovrebbe essere ricostituito dalla costruzione di una Europa unita, e in questo ancora molto è il lavoro da fare. Nel frattempo semplicisticamente gli americani si dedicano a “esportare democrazia” e la Russia è padrona dei rubinetti di gas e petrolio. Ambedue tengono sotto ricatto il Vecchio Continente. Sarà mica il caso di costruire un altro muro? Nessuno è perfetto!
Fabrizio Scarpa – 12 novembre 2014 “il Mercoledì” – numero 41 anno XX