L’11 gennaio 1999, a cinquantanove anni non ancora compiuti, moriva Fabrizio De André. Ci si trovava alla fine del ventesimo secolo e alle soglie del terzo millennio. Su Faber, così è tuttora noto il cantautore genovese, sono state scritte pagine e pagine, sono uscite innumerevoli e pregiate pubblicazioni, le sue “canzoni” sono sentite, anzi ascoltate da più di tre generazioni. Mi preme sottolineare la differenza tra i due verbi, giacché mentre sentire sta per “udire, percepire un suono”, ascoltare significa “stare a udire con attenzione, porgere orecchio attento”, quindi una azione più profonda tesa a godere maggiormente del contenuto di quanto giunge ai nostri padiglioni auricolari. Infatti le canzoni di Faber sono poesia a tutti gli effetti e meritano di essere esaminate a fondo anche separate dalla loro musica, che pure molto contribuisce a renderle quei capolavori che sono. Faber non amava essere definito poeta e spesso ho citato questa sua frase: “Benedetto Croce diceva che fino a diciotto anni tutti scrivono poesie e che, da questa età in poi, ci sono due categorie di persone che continuano a scrivere: i poeti e i … cretini. Allora io mi sono rifugiato prudentemente nella canzone che, in quanto forma di arte mista, mi consente scappatoie non indifferenti, là dove manca l’esuberanza creativa”. Grande cantautore dunque, ma di certo grande poeta anche contro il suo volere, ha cantato nelle sue opere soprattutto i deboli, gli oppressi, gli amori “sfigati”. Quante cose ci sarebbero da dire e da raccontare su Faber, e di certo non mancherò di farlo ancora. Mi piace ricordare il paesino di Sant’Ilario, dove sorgeva uno scalo ferroviario poi dismesso. Qui avevamo lasciato Bocca di rosa (1967), che faceva l’amore non per professione né per noia ma per passione, e a Sant’Ilario ritorniamo percorrendo una di quelle anguste mulattiere di mare, citata in Creuza de mä (1984), canzone contenuta nell’omonimo disco, tutto in lingua genovese, riconosciuto subito dalla critica come un capolavoro della musica pop e un caposaldo della musica etnica. Grazie ancora Faber.

Fabrizio Scarpa – 12 gennaio 2011
“il Mercoledì” – numero 2 anno XVII

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